L’insediamento di una comunità ebraica a Bertinoro risale alla fine del XIV secolo.
In un contratto del 1419 si parla di una casa di proprietà di Leone ebreo posta tra le attuali via Mainardi e via Fossato. L’impianto generale dell’edificio, databile alla metà del sec. XV e posto al centro della Giudecca, è realizzato in mattoni e conci di pietra. Sul fronte sono ancora leggibili le zone destinate all’abitazione delle famiglie. Sul lato orientale, all’angolo tra Via Fossato e Via Mainardi, sono visibili formelle in terracotta che riproducono i motivi della cornucopia e della lampada del Ner Tamid. È presumibile che su questo lato dell’edificio fosse stata realizzata la sinagoga della comunità ebraica.
Alla metà del sec. XV vi nacque Ovadyah Yare, uno dei maggiori commentatori della Mishnah, conosciuto ancora oggi come il Bertinoro.
Scendendo da Piazza della Libertà, si entra nel medievale borgo dei
Mainardi e all’angolo di via Fossato, si apre il palazzo della
Giudecca e di lì tutto il quartiere. Come sempre a Bertinoro, a raccontare la storia sono le sue
pietre e occorre saperle guardare per ascoltare le storie che
narrano. Siamo animali simbolici, viviamo in una foresta di simboli
dagli sguardi famigliari e sulla parete del grande edificio che ci
sovrasta ci accorgiamo che alcuni mattoni di terracotta ci guardano.
Su di loro sono le effigi di ricche cornucopie. In altri, invece, le cornucopie prendono vita da
piccole lampade ad olio. Erano segnali agli occhi degli ebrei di
Bertinoro che stavano ad indicare che lì era l’aron a-qodesh,
l’armadio sacro che custodiva il Sefer Torah. Vita particolare
quella degli ebrei romagnoli sul colle di Bertinoro: nessuno li
avrebbe riconosciuti passando per la strada, sugli abiti non avevano
segni di riconoscimento, le loro case erano aperte e all’inizio
della primavera, il grande palazzo fremeva per la preparazione della
Pasqua, per una promessa di libertà possibile per il popolo eletto,
ma anche per noi gentili. Forse ci balzerebbe all’occhio un
ragazzo, in lingua gentile il suo nome è Servadio, in ebraico
Ovadyah: un ragazzo studioso, sveglio, amante della vita e di
tutto quello che di buono la vita porta con sé. In fin dei conti,
forse, il segreto del con-vivere, del vivere insieme è nel
nome che questo ragazzo porta: essere al servizio di Dio passa
soltanto nell’essere al servizio gli uni degli altri.